martedì 20 giugno 2017

Intervista a Gianfranco Manfredi


Lo scrittore Gianfranco Manfredi presenterà in anteprima nazionale durante Palmanova – The game fortress il suo romanzo Splendore a Shanghai edito da Skira. Gli rivolgiamo alcune domande su questa storia ambientata nella città cinese lungo un decennio a cavallo degli anni Trenta del secolo scorso. Shanghai, in quel periodo, fu teatro di importanti e tragici avvenimenti storici, ma vide anche il fiorire di un mondo sfavillante, fatto di locali notturni, musica, ballo, divertimento sfrenato, vissuto da una clientela borghese locale e internazionale. È di questo mondo, e soprattutto degli artisti che lo animavano, che il romanzo ci parla.


Da lettore dei tuoi fumetti, la prima cosa cui ho pensato quando ho ricevuto il file del tuo romanzo è stata: “Shanghai deve aver stregato Gianfranco!”. Infatti, dopo la miniserie a fumetti Shanghai Devil, edita da Sergio Bonelli Editore ed ambientata nella Cina dei Boxer di fine Ottocento, ritorni ora col tuo nuovo romanzo nella stessa città ma in un periodo successivo. È solo un caso oppure la Cina, e Shanghai in particolare, esercitano su di te un fascino irresistibile?

Dopo aver scritto il fumetto, avevo continuato a studiare Shanghai. Durante un viaggio a Los Angeles avevo trovato un saggio molto bello (Shanghai’s Dancing World di Andrew David Field) che ricostruiva la storia dei locali notturni in città dal 1919 al 1954. Lì per lì avevo pensato a riprendere la serie a fumetti con il personaggio di Risto (che aveva ereditato la maschera di Shanghai Devil) nel mondo dei locali notturni. Poi però andando avanti a studiare mi sono reso conto di come fosse stata importante Shanghai per la musica jazz e non solo. E così ho deciso di scriverci un romanzo. Pur avendo fatto il musicista per un sacco di anni, non avevo mai scritto un romanzo sulla vita e le esperienze di un giovane musicista e nel quale la musica fosse in primo piano. Dunque il fascino di Shanghai si è unito a quello per la musica di quegli anni.


Giannetto, detto Doremì, un giovane pianista di Senigallia, è il protagonista del romanzo. Da una vita grigia di provincia, nella quale si guadagna da vivere suonando il piano durante le proiezioni dei film muti presso il locale cinema Eden, viene catapultato in una delle capitali dello show business internazionale. Perché hai scelto proprio Doremì come osservatore, e protagonista, di questo mondo popolato dai cosiddetti Shanghailanders?

Perché sono nato a Senigallia. Mio zio si chiamava proprio Giannetto e durante gli anni del conservatorio suonava il piano in un cinema di Pesaro per sbarcare il lunario. Lui mi ha raccontato cosa volesse dire suonare durante la proiezione dei film muti. Quel cinema, in Italia, lo si era battezzato “Il silenzioso”, ma le sale erano in realtà una bolgia. Il pubblico commentava le scene a gran voce e urlava al pianista o alle sommarie orchestrine, di suonare questo o quel pezzo perché non si collegava la musica al ritmo delle immagini. C’era però chi si sforzava eroicamente di farlo, improvvisando la colonna. Mio zio Giannetto non ha mai lasciato l’Italia , ma altri miei parenti sì. Un altro zio emigrò in Brasile, una zia in Inghilterra, mio padre restò per otto anni in Africa, sei dei quali in campo di prigionia, mia madre passò un non breve periodo in Inghilterra, un’altra mia zia si trasferì a Ginevra… tutto questo in una sola famiglia! A moltissimi italiani capitava di trovarsi d’improvviso catapultati da una piccola città di provincia a un contesto del tutto nuovo, estraneo e spaesante. La Cina si prestava molto a dare il senso di questo spaesamento assoluto. Del resto, mentre usciva Shanghai Devil in edicola, alcuni lettori mi avevano scritto di loro parenti italiani in Cina e mandato anche delle fotografie.



La musica è la vera protagonista, attraverso le storie dei vari interpreti, famosi e non, di fantasia e realmente esistiti, che incontriamo lungo la storia. Ma anche attraverso le sue varie forme di espressione: concerti con orchestra sinfonica, balletti, gare da ballo, riviste, esibizioni canore, e soprattutto band di musica jazz, la vera passione di Doremì. E poi c’è il progetto incompiuto di rappresentare la Turandot di Puccini. E ancora le tante canzoni composte da Doremì, che esprimono ciò che sta vivendo. Perché hai sentito il bisogno di scrivere adesso un romanzo in cui la musica ha questo ruolo fondamentale?

Credo che in quegli anni, in cui il jazz era musica da ballo, sia nata la mescolanza che ha caratterizzato tutta la musica contemporanea. A Shanghai si mescolava tutto: da Tchaikosvkj al Kabarett tedesco. Shanghai era un porto franco in cui si arrivava da tutto il mondo e nel recinto dorato dell’International Settlement esplodevano i locali notturni. I generi musicali si influenzavano reciprocamente. La mescolanza includeva anche il gusto musicale dei cinesi: nasceva la cosiddetta Yellow Music che era un modo per portare ai cinesi la musica occidentale trasformandola secondo il loro gusto. La musica tradizionale cinese era pentatonica. Il pubblico cinese detestava il pianoforte. Ci si abituò soltanto lentamente. Al principio c’erano pianisti jazz che si trovavano costretti a suonare il piano con un dito solo per non infastidire il pubblico. Paolo Conte ha dedicato almeno tre canzoni a Shanghai: Lo zio (pensa un po’) ; Sotto la luna bruna; Jimmy Ballando. Confesso che quando le avevo ascoltate non avevo colto i riferimenti, ma evidentemente aveva approfondito cosa accadeva a Shanghai tra gli anni 20 e 30 e come sia stata fondamentale per il jazz. Dal punto di vista personale, mi sono allontanato per troppo tempo dalla musica. Sentivo un gran bisogno di riprendere a scrivere canzoni, ma sentivo anche che dovevano essere diversissime da quelle scritte in precedenza. Così, anzitutto le ho scritte in inglese, e poi le ho scritte pensando a un altro mondo, a un’altra epoca. Musicalmente spero di poterci lavorare con amici e colleghi che stimo molto e che stanno oggi riscoprendo con spirito nuovo la canzone jazz di quegli anni fondamentali. Alcuni di loro mi sono stati utilissimi mentre scrivevo il romanzo perché mi hanno illuminato su certi aspetti tecnici, evitandomi degli errori. Non c’è nulla di peggio che leggere un romanzo che parla di musica, sorbendosi gli strafalcioni degli scrittori.


Oltre alla musica, c’è anche tanto cinema in questo romanzo. C’è Warner Oland, l’attore svedese che interpretò il personaggio di Charlie Chan nella fortunata serie cinematografica, ma soprattutto c’è Anna May Wong, la prima attrice cinese-americana a diventare una star internazionale di Hollywood. È con la sua figura che si apre e si chiude circolarmente il romanzo e la storia di crescita di Doremì. Perché hai dato ad Anna questo ruolo e cosa ti ha affascinato della sua vicenda di donna e di artista?

Spero di potere tornare presto a raccontarla. E’ stata la prima star e sex-symbol orientale in America (era californiana, dopotutto) e in Europa: fece anche un’apparizione teatrale a Milano. Per qualche anno fu l’amante del mio attore preferito, Vincent Price, che però era già sposato. Venne molto osteggiata in Cina, perché a detta dei confuciani e dei nazionalisti dava un’immagine “peccaminosa” del paese. Insieme a lei ho anche raccontato Valaida Snow una cantante, ballerina e trombettista americana che suonava nello stile di Louis Armstrong. Anche lei vorrei tornare a raccontarla perché la sua biografia è talmente piena di cose (e anche di episodi controversi) che un romanzo soltanto non bastava.



Doremì e i suoi colleghi artisti vivono muovendosi fra due dimensioni, quella musicale e notturna dei locali in cui si esibiscono e quella reale e diurna del mondo che ogni giorno va avanti e si scontra con drammatici eventi storici. I primi anni Trenta sono infatti segnati da battaglie sanguinose combattute a più riprese a Shanghai fra i nazionalisti di Chang Kai-shek, i comunisti organizzati clandestinamente, le tong, i militari giapponesi. Perché, ancora una volta, come in altre tue opere (penso alle tue collane a fumetti) la Storia non sta solo sullo sfondo ma diventa spesso protagonista interferendo direttamente con le vite dei protagonisti?

In questo caso c’era un riferimento ai Diari Berlinesi di Isherwood dai quali è stato tratto il film Cabaret con Liza Minnelli. In quel film, assistevamo alla rutilante e “peccaminosa” vita del Kabarett berlinese nel contesto dell’ascesa del nazismo. Mi stimolava molto esplorare questo tema: cosa significhi fare musica e spettacolo in un contesto di acceso scontro politico e di guerra civile. Cosa deve fare un musicista in queste circostanze? Ce lo domandavamo spesso negli anni 70 quando si faceva spettacolo in un contesto bollente, dove le tragedie erano quotidiane. Lo spettacolo deve continuare comunque? Lo spettacolo non è un mondo a sé, anche se resta sempre, per molti versi, un mondo a parte. E poi hai ragione, l’intreccio tra la Storia e la vita quotidiana mi ha sempre appassionato. Non lo so bene, il perché. So che è così. La musica comunque è intimamente intrecciata alla vita e ai comportamenti collettivi. In quegli anni si diceva: “Joy, Gin & Jazz” esattamente come nella mia generazione si parlava di “Sesso, droga e rock’n’roll”. Non se ne parlava soltanto, si viveva così.



Giornalisti, attori, scrittori e poeti: non ci sono solo musicisti in questo romanzo. Fra tutti spicca Lu Xun, il più grande poeta cinese di quel tempo: un riferimento morale, prima che artistico. Cosa ti ha colpito di lui?

E’ una personalità gigantesca. Gli venne offerto il Premio Nobel, lui chiese all’Accademia di Svezia se avessero letto i suoi scritti in cinese. Gli risposero che li avevano letti nella traduzione inglese e siccome a lui quella traduzione non era piaciuta, rifiutò il Nobel. I suoi scritti letterari sono straordinari. Si confessò influenzato da Edgar Allan Poe e insieme guardava con ammirazione al grande romanzo sociale russo. Ma raccontava della Cina profonda. Mo Yan (Premio Nobel per la letteratura qualche anno fa) è stato indubbiamente molto influenzato da lui. Sul piano politico poi Lu Xun è ancora una stella polare. Per quanto vicino agli ambienti rivoluzionari, insisteva sempre sul fatto che i veri avversari sono i reazionari, non i riformisti. E agli studenti insegnava a non parlare “in nome del popolo” usandolo come astratto riferimento ideologico, ma a mescolarsi al popolo, a conoscerne e condividerne la vita e le sofferenze.


In Splendore a Shanghai c’è anche posto per l’amore. Diverse sono le donne da cui Doremì è affascinato. Oltre all’inarrivabile (?) Anna May Wong, Doremì si innamora della suonatrice e cantante afroamericana Valada, della pittrice e attrice cinese Xiaoman e della splendida cantante russa Olga. Da dove nascono i personaggi di Valada, Xiaoman e Olga?

I personaggi sono tutti storici, cioè autentici, a parte Olga che è inventata, ma altrettanto autentica, in quanto l’ho costruita per intrecci biografici. Le altre donne sono per Doremì conoscenze, con Olga invece vive una profonda e contrastata storia d’amore. Dunque dovevo inventarla per forza. Volevo scrivere una storia d’amore e non volevo farlo in modo stereotipato, volevo raccontare anche le incomprensioni, le distanze, i litigi, e quella parte che resta per entrambi i partner indecifrabile. Non è tutto chiaro nell'amore, non tutto è spiegabile. Raramente il vero amore è retorico, quando lo diventa può facilmente tendere al falso, magari gratificante, ma falso. In apertura del romanzo cito una frase di Italo Svevo in cui scrive: “Chi legge un romanzo deve avere il senso di sentirsi raccontare una cosa veramente avvenuta.”

Nessun commento:

Posta un commento