Lo scrittore Gianfranco Manfredi presenterà in anteprima nazionale durante Palmanova – The game fortress il suo romanzo Splendore a Shanghai edito da Skira. Gli rivolgiamo alcune domande su questa storia ambientata nella città cinese lungo un decennio a cavallo degli anni Trenta del secolo scorso. Shanghai, in quel periodo, fu teatro di importanti e tragici avvenimenti storici, ma vide anche il fiorire di un mondo sfavillante, fatto di locali notturni, musica, ballo, divertimento sfrenato, vissuto da una clientela borghese locale e internazionale. È di questo mondo, e soprattutto degli artisti che lo animavano, che il romanzo ci parla.
Dopo aver scritto
il fumetto, avevo continuato a studiare Shanghai. Durante un viaggio
a Los Angeles avevo trovato un saggio molto bello (Shanghai’s
Dancing World di Andrew David Field) che ricostruiva la storia
dei locali notturni in città dal 1919 al 1954. Lì per lì avevo
pensato a riprendere la serie a fumetti con il personaggio di Risto
(che aveva ereditato la maschera di Shanghai Devil) nel mondo dei
locali notturni. Poi però andando avanti a studiare mi sono reso
conto di come fosse stata importante Shanghai per la musica jazz e
non solo. E così ho deciso di scriverci un romanzo. Pur avendo fatto
il musicista per un sacco di anni, non avevo mai scritto un romanzo
sulla vita e le esperienze di un giovane musicista e nel quale la
musica fosse in primo piano. Dunque il fascino di Shanghai si è
unito a quello per la musica di quegli anni.
Giannetto, detto Doremì, un
giovane pianista di Senigallia, è il protagonista del romanzo. Da
una vita grigia di provincia, nella quale si guadagna da vivere
suonando il piano durante le proiezioni dei film muti presso il
locale cinema Eden, viene catapultato in una delle capitali
dello show business internazionale. Perché hai scelto proprio
Doremì come osservatore, e protagonista, di questo mondo popolato
dai cosiddetti Shanghailanders?
Perché sono nato
a Senigallia. Mio zio si chiamava proprio Giannetto e durante gli
anni del conservatorio suonava il piano in un cinema di Pesaro per
sbarcare il lunario. Lui mi ha raccontato cosa volesse dire suonare
durante la proiezione dei film muti. Quel cinema, in Italia, lo si
era battezzato “Il silenzioso”, ma le sale erano in realtà una
bolgia. Il pubblico commentava le scene a gran voce e urlava al
pianista o alle sommarie orchestrine, di suonare questo o quel pezzo
perché non si collegava la musica al ritmo delle immagini. C’era
però chi si sforzava eroicamente di farlo, improvvisando la colonna.
Mio zio Giannetto non ha mai lasciato l’Italia , ma altri miei
parenti sì. Un altro zio emigrò in Brasile, una zia in Inghilterra,
mio padre restò per otto anni in Africa, sei dei quali in campo di
prigionia, mia madre passò un non breve periodo in Inghilterra,
un’altra mia zia si trasferì a Ginevra… tutto questo in una sola
famiglia! A moltissimi italiani capitava di trovarsi d’improvviso
catapultati da una piccola città di provincia a un contesto del
tutto nuovo, estraneo e spaesante. La Cina si prestava molto a dare
il senso di questo spaesamento assoluto. Del resto, mentre usciva
Shanghai Devil in edicola, alcuni lettori mi avevano scritto
di loro parenti italiani in Cina e mandato anche delle fotografie.
Credo che in
quegli anni, in cui il jazz era musica da ballo, sia nata la
mescolanza che ha caratterizzato tutta la musica contemporanea. A
Shanghai si mescolava tutto: da Tchaikosvkj al Kabarett tedesco.
Shanghai era un porto franco in cui si arrivava da tutto il mondo e
nel recinto dorato dell’International Settlement esplodevano i
locali notturni. I generi musicali si influenzavano reciprocamente.
La mescolanza includeva anche il gusto musicale dei cinesi: nasceva
la cosiddetta Yellow Music che era un modo per portare ai cinesi la
musica occidentale trasformandola secondo il loro gusto. La musica
tradizionale cinese era pentatonica. Il pubblico cinese detestava il
pianoforte. Ci si abituò soltanto lentamente. Al principio c’erano
pianisti jazz che si trovavano costretti a suonare il piano con un
dito solo per non infastidire il pubblico. Paolo Conte ha dedicato
almeno tre canzoni a Shanghai: Lo zio (pensa un po’) ; Sotto
la luna bruna; Jimmy Ballando. Confesso che quando le
avevo ascoltate non avevo colto i riferimenti, ma evidentemente aveva
approfondito cosa accadeva a Shanghai tra gli anni 20 e 30 e come sia
stata fondamentale per il jazz. Dal punto di vista personale, mi sono
allontanato per troppo tempo dalla musica. Sentivo un gran bisogno di
riprendere a scrivere canzoni, ma sentivo anche che dovevano essere
diversissime da quelle scritte in precedenza. Così, anzitutto le ho
scritte in inglese, e poi le ho scritte pensando a un altro mondo, a
un’altra epoca. Musicalmente spero di poterci lavorare con amici e
colleghi che stimo molto e che stanno oggi riscoprendo con spirito
nuovo la canzone jazz di quegli anni fondamentali. Alcuni di loro mi
sono stati utilissimi mentre scrivevo il romanzo perché mi hanno
illuminato su certi aspetti tecnici, evitandomi degli errori. Non c’è
nulla di peggio che leggere un romanzo che parla di musica,
sorbendosi gli strafalcioni degli scrittori.
Oltre alla musica, c’è anche
tanto cinema in questo romanzo. C’è Warner Oland, l’attore
svedese che interpretò il personaggio di Charlie Chan nella
fortunata serie cinematografica, ma soprattutto c’è Anna May
Wong, la prima attrice cinese-americana a diventare una star
internazionale di Hollywood. È con la sua figura che si apre e si
chiude circolarmente il romanzo e la storia di crescita di Doremì.
Perché hai dato ad Anna questo ruolo e cosa ti ha affascinato della
sua vicenda di donna e di artista?
Spero di potere
tornare presto a raccontarla. E’ stata la prima star e sex-symbol
orientale in America (era californiana, dopotutto) e in Europa: fece
anche un’apparizione teatrale a Milano. Per qualche anno fu
l’amante del mio attore preferito, Vincent Price, che però era già
sposato. Venne molto osteggiata in Cina, perché a detta dei
confuciani e dei nazionalisti dava un’immagine “peccaminosa”
del paese. Insieme a lei ho anche raccontato Valaida Snow una
cantante, ballerina e trombettista americana che suonava nello stile
di Louis Armstrong. Anche lei vorrei tornare a raccontarla perché la
sua biografia è talmente piena di cose (e anche di episodi
controversi) che un romanzo soltanto non bastava.
Doremì e i suoi colleghi artisti
vivono muovendosi fra due dimensioni, quella musicale e notturna dei
locali in cui si esibiscono e quella reale e diurna del mondo che
ogni giorno va avanti e si scontra con drammatici eventi storici. I
primi anni Trenta sono infatti segnati da battaglie sanguinose
combattute a più riprese a Shanghai fra i nazionalisti di Chang
Kai-shek, i comunisti organizzati clandestinamente, le tong, i
militari giapponesi. Perché, ancora una volta, come in altre tue
opere (penso alle tue collane a fumetti) la Storia non sta solo
sullo sfondo ma diventa spesso protagonista interferendo
direttamente con le vite dei protagonisti?
In questo caso
c’era un riferimento ai Diari Berlinesi di Isherwood dai
quali è stato tratto il film Cabaret con Liza Minnelli. In
quel film, assistevamo alla rutilante e “peccaminosa” vita del
Kabarett berlinese nel contesto dell’ascesa del nazismo. Mi
stimolava molto esplorare questo tema: cosa significhi fare musica e
spettacolo in un contesto di acceso scontro politico e di guerra
civile. Cosa deve fare un musicista in queste circostanze? Ce lo
domandavamo spesso negli anni 70 quando si faceva spettacolo in un
contesto bollente, dove le tragedie erano quotidiane. Lo spettacolo
deve continuare comunque? Lo spettacolo non è un mondo a sé, anche
se resta sempre, per molti versi, un mondo a parte. E poi hai
ragione, l’intreccio tra la Storia e la vita quotidiana mi ha
sempre appassionato. Non lo so bene, il perché. So che è così. La
musica comunque è intimamente intrecciata alla vita e ai
comportamenti collettivi. In quegli anni si diceva: “Joy, Gin &
Jazz” esattamente come nella mia generazione si parlava di “Sesso,
droga e rock’n’roll”. Non se ne parlava soltanto, si viveva
così.
Giornalisti, attori, scrittori e poeti: non ci sono solo musicisti in questo romanzo. Fra tutti spicca Lu Xun, il più grande poeta cinese di quel tempo: un riferimento morale, prima che artistico. Cosa ti ha colpito di lui?
Giornalisti, attori, scrittori e poeti: non ci sono solo musicisti in questo romanzo. Fra tutti spicca Lu Xun, il più grande poeta cinese di quel tempo: un riferimento morale, prima che artistico. Cosa ti ha colpito di lui?
E’ una
personalità gigantesca. Gli venne offerto il Premio Nobel, lui
chiese all’Accademia di Svezia se avessero letto i suoi scritti in
cinese. Gli risposero che li avevano letti nella traduzione inglese e
siccome a lui quella traduzione non era piaciuta, rifiutò il Nobel.
I suoi scritti letterari sono straordinari. Si confessò influenzato
da Edgar Allan Poe e insieme guardava con ammirazione al grande
romanzo sociale russo. Ma raccontava della Cina profonda. Mo Yan
(Premio Nobel per la letteratura qualche anno fa) è stato
indubbiamente molto influenzato da lui. Sul piano politico poi Lu Xun
è ancora una stella polare. Per quanto vicino agli ambienti
rivoluzionari, insisteva sempre sul fatto che i veri avversari sono i
reazionari, non i riformisti. E agli studenti insegnava a non parlare
“in nome del popolo” usandolo come astratto riferimento
ideologico, ma a mescolarsi al popolo, a conoscerne e condividerne la
vita e le sofferenze.
In Splendore a Shanghai c’è
anche posto per l’amore. Diverse sono le donne da cui Doremì è
affascinato. Oltre all’inarrivabile (?) Anna May Wong, Doremì si
innamora della suonatrice e cantante afroamericana Valada, della
pittrice e attrice cinese Xiaoman e della splendida cantante russa
Olga. Da dove nascono i personaggi di Valada, Xiaoman e Olga?
I personaggi sono
tutti storici, cioè autentici, a parte Olga che è inventata, ma
altrettanto autentica, in quanto l’ho costruita per intrecci
biografici. Le altre donne sono per Doremì conoscenze, con Olga
invece vive una profonda e contrastata storia d’amore. Dunque
dovevo inventarla per forza. Volevo scrivere una storia d’amore e
non volevo farlo in modo stereotipato, volevo raccontare anche le
incomprensioni, le distanze, i litigi, e quella parte che resta per
entrambi i partner indecifrabile. Non è tutto chiaro nell'amore,
non tutto è spiegabile. Raramente il vero amore è retorico, quando
lo diventa può facilmente tendere al falso, magari gratificante, ma
falso. In apertura del romanzo cito una frase di Italo Svevo in cui
scrive: “Chi legge un romanzo deve avere il senso di sentirsi
raccontare una cosa veramente avvenuta.”
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